Aristotele non fu sicuramente il primo a parlare della tragedia ma, certamente, fu quello che nell’antichità ne fece uno studio più approfondito. Infatti, partendo dal presupposto che la tragedia, come tutte le forme d’arte, è imitazione, arriva a spiegarne il suo più intimo significato, che è quello della purificazione, della catarsi. La tragedia è un insegnamento per l’uomo, un insegnamento a come dovrebbe essere o comportarsi tramite la visione o semplicemente la lettura. Secondo Aristotele un’altissima tragedia è quella che fa nascere i sentimenti di terrore e di pietà, fondamentali per la catarsi, anche solo leggendola; una buona tragedia deve poi mantenere quei canoni da lui descritti: le famose tre unità, di luogo, di tempo e di azione, segua quindi una coerenza logica, sia suddivisa in prologo, che è, che è una parte completa della tragedia che precede l’ingresso del coro, l’episodio, una parte completa della tragedia fra due canti corali, l’esodo, è una parte completa della tragedia a cui non segue canto del coro. Parte essenziale della tragedia sono poi i protagonisti, i quali, secondo Aristotele, devono essere il più umano possibile anzi, l’autore dovrebbe immedesimarsi prima in essi per studiare meglio tutta la loro psicologia. Uno studio particolare e approfondito va poi dedicato al coro, il più importante personaggio della tragedia, rappresenta infatti il giudizio dei più, che può influenzare o meno lo svolgersi dell’intera tragedia.
martes, 11 de enero de 2011
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